L’incremento della redditività e dell’efficienza gestionale legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L’avv. Valentina Pepe ha commentato per Diritto24 la recente sentenza di Cassazione che consolida il più recente orientamento in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Con la sentenza n. 30259 del 22 novembre 2018, la Cassazione torna a pronunciarsi sui requisiti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, statuendo che, tra le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro legittimanti il recesso datoriale, rientrano anche quelle finalizzate ad una migliore efficienza gestionale o ad un incremento della redditività dell’impresa.

Ciò a condizione che tali finalità si accompagnino ad un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo dell’impresa che determini la soppressione di una determinata posizione lavorativa non essendo, peraltro, necessario ai fini della configurabilità del giustificato motivo – precisa la stessa Corte di Cassazione – che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse mansioni essere soltanto diversamente ripartite ed attribuite in capo ad altri dipendenti.

Pertanto, una volta superato il vaglio giudiziale in merito all’effettiva e non pretestuosa riorganizzazione aziendale comportante la soppressione del posto di lavoro, non è sindacabile da parte del Giudice la scelta imprenditoriale di realizzare un migliore assetto gestionale o un incremento della redditività dell’impresa. Un vaglio giudiziale di tal fatta, infatti, integrerebbe una violazione della libertà di impresa e di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione.

La pronuncia in commento fornisce spunti interessanti anche in punto di “repêchage” in quanto – pur confermando il principio in base al quale non grava sul lavoratore licenziato l’onere di indicare le altre posizioni lavorative esistenti in azienda al momento del recesso – stabilisce che, laddove il lavoratore indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità di repêchage.

La decisione in esame va quindi a corroborare quel recente filone giurisprudenziale (Cass. civ., Sez. Lav., n. 25201/2016, Cass. civ., Sez. Lav., n. 10699/2017, Cass. civ., Sez. Lav., n. 24882/2017) che – sposando un’interpretazione letterale dell’art. 3 della l. n. 604/1966 – ritiene sufficiente, ai fini della legittimità del licenziamento, la sussistenza di ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, tra le quali non rientrano solo la necessità di fronteggiare un andamento economico negativo o situazioni di crisi, ma anche le ragioni legate ad un efficientamento gestionale/produttivo ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività o della competitività d’impresa.

E’ necessario tuttavia considerare che, al più recente orientamento “estensivo” della Suprema Corte in tema di “giustificato motivo oggettivo di licenziamento“, si contrappone un diverso orientamento giurisprudenziale – attualmente minoritario, ma comunque non superato – che ritiene legittimo il licenziamento solo quale “extrema ratio”, dovendo risultare questa scelta (il licenziamento del lavoratore) “socialmente opportuna“, non meramente strumentale ad un incremento del profitto aziendale e dettata dall’esigenza di far fronte a situazioni sfavorevoli non contingenti e non altrimenti risolvibili dall’imprenditore (Cass. civ., Sez. Lav., n. 19185/2016).

Tale orientamento “restrittivo” fonda le proprie radici sul presupposto di una differente interpretazione dell’art. 41 Cost. come disposizione che “funzionalizza” la libertà di impresa, imponendo che tale libertà “non possa (può) svolgersi in contrasto con l’utilità sociale“.